Il nostro assolato pomeriggio a Tirana inizia con una storia. Quella di un ragazzo di poco più di quarant’anni.
Un ragazzo che in quel 1991 viveva con la sua famiglia a meno di quattro chilometri dalla “Casa delle Foglie”. Quel 1991 in cui ha lasciato la sua casa, la sua famiglia e – da solo – è arrivato fino a Durazzo dove è salito su una nave.E’ rimasto aggrappato ad una balaustra di ferro, nel freddo di una notte sul mare. Erano in ventimila, su quella nave, ma lui non poteva lasciare quell’appiglio di metallo, sennò sarebbe stato travolto e qualcun altro avrebbe occupato quel posto. E’ arrivato a Bari l’8 agosto 1991, smistato poi in un centro di prima accoglienza a Triggiano. Da lì, assegnato a Jesolo dove è riuscito a costruirsi un po’ di vita vera.
(“smistato”, “assegnato”. Vocaboli più da pacchi postali che da umani, ma tant’è, visto che lui stesso usa queste parole nel raccontare)
Ha fatto il giardiniere per quasi 18 anni, ma 3 anni fa ha deciso di tornare a casa. La stessa casa del 1991, gli stessi 4 chilometri di distanza dalla “Casa delle foglie”.
Oggi fa la guida in questo originalissima casa-museo e appena ci sente parlare italiano, si offre di accompagnarci.
La “Casa delle foglie” si chiama così perché era interamente ricoperta di foglie di edera. Lo scopo era farla passare inosservata, ma forse anche incutere un po’ di timore.
Era la base operativa del servizi segreti albanesi. Da lì si ascoltava di nascosto, si producevano microspie, si decidevano strategie di spionaggio, si aprivano lettere richiudendole dopo averne letto il contenuto.
Si fotografava, si applicavano cimici nelle case, si infiltravano talpe tra le persone…perfino i vertici del partito comunista erano spiati e controllati.
Poco distante dalla “Casa delle foglie” c’era il famigerato Blloku: il quartiere dove risiedevano i vertici del regime. Una zona della città alla quale era impossibile anche solo avvicinarsi, completamente circondata da torrette di guardia interrate, filo spinato e bunker.
Oggi è uno dei quartieri più vivaci della città, dove la creatività della giovane Tirana si esprime nelle gallerie d’arte contemporanea, nella musica e nei mille locali alla moda. Scherzi e ironia della libertà! Qui Tirana è una dinamica capitale europea.
Ma torniamo alla “casa delle foglie”. Appena oltrepassato il cancello, si accede al giardino e all’entrata blindata del bunker sotterraneo dove si aprono dei lunghi corridoi. Evidentemente bisognava proggersi sia dai bombardamenti aerei, sia da potenziali nemici interni. Perché anche i regimi apparentemente forti hanno i loro timori…
L’interno della casa è invece diviso in due piani, a loro volta suddivisi in tantissime stanze.
In ognuna di queste gli operatori, direttamente dipendenti dal ministero dell’interno, si suddividevano i compiti in base alle proprie capacità e competenze.
Alcuni si occupavano delle postazioni di ascolto, pronti a registrare sui nastri eventuali frasi ritenute compromettenti; alcuni si occupavano delle sviluppo delle fotografie nella camera oscura; alcuni – in una stanza piena di prodotti chimici e microscopi – si occupavano della posta.La stanza più grande del piano terra espone una serie immensa di attrezzature e strumenti adatti allo spionaggio. Di fabbricazione russa, cinese o albanese rappresentavano tutti i migliori elementi tecnologici del periodo.
Tra queste una cimice piccolissima che potrebbe essere tuttora utilizzata con ottimi risultati.
Ogni tanto, un cartello avvisa “This room is bugged!”. Capiremo solo più tardi il significato.
In un corridoio è appeso un cappotto. Passerebbe inosservato se la nostra guida non ci chiedesse di guardarlo con attenzione. Non ci vediamo niente di strano: è un cappotto!
Nulla, fino a quando apriamo una cerniera interna.
E’ nascosta una macchina fotografica che scatta grazie ad un meccanismo inserito nella tasca; l’obiettivo è nel bottone centrale.
E’ il pezzo più curioso (e forse prezioso) del Museo e venne abbandonato velocemente quando il centro di ascolto fu chiuso nel 1992.
Millenovecentonovantadue, ad appena un’ora di volo da casa nostra. Mica secoli fa.
Camera oscura e sala degli esperimenti: tra vaschette di acido per sviluppare le foto e miscroscopi, spicca una file di pentole sulle quali è appoggiato un piccolo vassoio in metallo. Mai avremmo immaginato l’utilizzo…
Il vapore prodotto dall’acqua contenuta nelle pentole serviva per sciogliere la colla che chiudeva le lettere; si potevano così aprire senza rovinarle, leggerle e rimetterle nella busta, incollandole nuovamente.
Vedere senza essere visti. Leggere senza farsi scoprire.
“This room is bugged!”
Al piano di sopra entriamo in una stanza di ascolto.
Su degli scaffali sono sistemati diversi impianti audio, collegati ad altrettanti microfoni sparsi in alcune stanze. Quelle “bugged”, appunto!
Attivando l’interruttore si ascoltano le conversazioni all’interno delle stanze.
Ci divertiamo a giocare tornando a turno nelle stanze “spiate” e parlando verso il muro per farsi sentire. Oggi può sembrare un gioco, ma all’epoca del regime era una violazione della libertà che poteva avere conseguenze brutali e spietate. E stiamo parlando del 1992. Chi ascoltava, o chi decideva le vittime degli ascolti, è ancora vivo e vegeto in giro per Tirana.
Un telefono di quelli con la cornetta grigia e il disco dei numeri è collegato ad un registratore. La nostra guida fa un esperimento e con il suo cellulare chiama quel numero. Squilla; solleviamo la cornetta e subito scatta un meccanismo elettronico che fa partire il registratore. Così si spiavano i telefoni sotto controllo.
Lo ribadiamo: la “casa delle foglie” è stata chiusa nel 1992. Un anno dopo del grande sbarco di Bari.
Non ci inoltriamo in analisi politiche o filosofiche sulle grandi migrazioni del nostro secolo, ma la cosa certa…(o perlomeno che a noi è sembrata tale) è che se non si capiscono le ragioni per cui le persone scappano da casa, è difficile…anzi, impossibile giudicare o trarre delle conclusioni.
Una cosa invece è certa. Durante il nostro viaggio in Albania abbiamo incontrato tante persone che erano scappate verso l’Italia in quegli anni. Tutti hanno vissuto, lavorato e guadagnato nel nostro Paese, ma molti sono ritornati a casa. Perché prima o poi, appena possono, preferiscono tornare. Anche se vivono ad appena 4 chilometri dalla “casa delle foglie” e dal ricordo di un clima che li ha costretti a fuggire.
Perché ognuno, in fin dei conti, sta meglio a casa sua.