Pochi luoghi al Mondo fanno percepire forte e potente la magia della Natura.
Uno di questi è il deserto. E la misura di questa forza, in particolare, ce la danno le oasi. Là dove scorre un rivolo di acqua sotterraneo invisibile e quasi insignificante, in mezzo a chilometri di sabbia spunta dal nulla una chiazza verde.
Erba, grano, palme da datteri, albicocchi, mandorli. E roseti.

Lasciata Ouarzazate, la strada punta ad est, verso il grande Sahara algerino. Sullo sfondo il Monte Atlante ci regala un’inaspettata cornice con le sue cime eccezionalmente innevate. Ha piovuto anche nel deserto e le persone che incontriamo sono felici perché l’acqua, qui più altrove, è fonte di vita.

La strada attraversa chilometri di terreno roccioso. Rocce e sabbia rossa che preannunciano il Sahara. Impastata con l’acqua diventa mattoni e fango con cui da secoli si costruiscono le case, le kasbah, gli ksar

Skoura spunta all’improvviso, come si confà alle oasi.

Una grande chiazza verde, un palmeto lungo venticinque chilometri e largo dieci alimentato da un torrente sotterraneo che arriva proprio dal Monte Atlante. Qui le popolazioni berbere costruirono ingegnosi sistemi di irrigazione scavando pozzi e cisterne sotterranee che immagazzinano la poca acqua a disposizione. I canali, sempre sotterranei fanno il resto. Ha nevicato, sull’Atlante. Tempo poche ore e la neve si scioglierà e riempirà i pozzi e i canali. Riserve d’acqua fuori stagione: un regalo inatteso, Inshallah.

Nell’oasi vive oggi qualche migliaio di persone, ma un tempo era molto più popolata ed ospitava anche una grande Sinagoga. Già, una comunità ebraica molto importante e dedita ai commerci qui lungo la “via delle mille kasbah”. Da qui passava la via carovaniera che attraversava il deserto e arrivava a Marrakech. Poi però, nel corso della storia, per gli ebrei si è messa male anche da queste parti e hanno abbandonato la zona.

Oggi gli abitanti si occupano per lo più di attività turistiche, anche se le coltivazioni sono ancora piuttosto fiorenti. Datteri e mandorle, soprattutto.

E proprio i datteri e le mandorle ci vengono offerti, insieme ad un tè alla menta, al nostro arrivo nella kasbah che ci ospiterà per due notti.

Abbiamo scelto una casa di fango: una delle esperienze da non perdere durante un viaggio in Marocco. Per arrivarci si percorrono gli ultimi chilometri di pista nel deserto: il tragitto perfetto per ambientarsi al contesto.

Qui è tutto di fango. Le pareti, i soffitti, la terrazza. Due piani di costruzione interamente in fango e foglie di tamarindo essiccate. Sotto al tetto (piatto e in fango!) viene sistemata una specie di guaina perfettamente impermeabile fatta di foglie di palma intrecciate.

Dalla terrazza osserviamo da un lato le palme, dall’altro il deserto. Là dove a malapena arriva lo sguardo, finiscono le palme e riprende posto il deserto.

All’Auberge Migusta Madame Hayate si occupa dell’ospitalità che, da queste parti, va ben oltre la tariffa da pagare per il soggiorno. Il pavimento della grande sala da pranzo è completamente coperto di tappeti. E poi quattro tavoli, alcune panche di legno, dei divanetti zeppi di cuscini colorati. Dalla sala si esce all’esterno e dopo pochi passi si entra nella cucina.

Da lì Madame Hayate fa uscire colazioni e cene per gli ospiti. Tajine, zuppe, focacce all’olio, cous cous

Il più buon cous cous assaggiato in Marocco, per essere precisi…

La colazione si serve in terrazza. Adeguatamente modellato, il fango diventa finestre, scalini, lampade e panche su cui sedersi. Ci sono i cuscini e i tappeti colorati. I tavolini in legno dove al mattino trovano posto le marmellate e il miele, le focacce e le brioches. Tutto fatto in casa…

Sdraiati sugli stessi cuscini, la notte diventa occasione per ammirare il più bello dei cieli stellati…

Dormire nell’oasi è la soluzione più comoda per visitare il palmeto e una delle più belle kasbah del Marocco.
Talmente bella da finire sulle banconote da 50 dirham.

Risale al XVII secolo e ancora oggi appartiene alla stessa famiglia che la fece costruire. Una parte è ancora abitata dai discendenti della famiglia, mentre l’altra è aperta al pubblico e visitabile.

Ameridil, questo il suo nome, è un imponente castello di cinque piani interamente costruito in fango. Le pareti dei piani bassi sono spesse, prive di finestre e decori, mentre man mano si sale si trovano aperture, finestre e decorazioni sempre più articolate. Oltre naturalmente a dare luce, le finestre e i decori servivano per alleggerire la struttura dell’intero castello. Sotto le mura spesse e piene reggono il peso; sopra i muri più sottili e con le aperture pesano meno non gravando sulla struttura.

Un po’ come i castelli di sabbia al mare…
L’interno dell’abitazione conserva ancora vecchi attrezzi da lavoro, suppellettili, vasellame e alcuni dettagli molto interessanti.

Ma la parte più bella, per cui merita visitare la kasbah Ameridil, è il panorama dall’ultimo piano.

Ancora il palmeto e ancora, sullo sfondo, il deserto.

Proseguiamo verso est, altri 50 chilometri fino a Kelaat M’Gouna.
Un paese piuttosto anonimo lungo la strada verso le dune, se non fosse che qui si tiene, intorno alla prima settimana di maggio, il Festival delle Rose. Un evento che richiama migliaia di persone, in un tripudio di petali, profumi ed essenze tra canti e musiche della tradizione berbera.

Una lunga e stretta fascia di vegetazione verdissima accompagna le sponde del fiume Dades. Ogni tanto, dalle palme, spuntano i resti di qualche antica Kasbah; alcune, come la Kasbah Talmoute, sono abbandonate, altre sono in fase di recupero per farne hotel per i turisti.

Sono sempre di più gli stranieri che passano da queste parti; attirati dalla bellezza della Natura, dal fascino del deserto, dai roseti in fiore…

Da Kelaat M’Gouna si aprono due vie: le Gole del Dades e la famosa Valle delle Rose.

Percorriamo quest’ultima strada, in un panorama al quale siamo ormai abituati, ma che non smette di incantarci: il deserto rosso da un lato, la fascia verdissima dall’altro.

Quando ci fermiamo per visitare un roseto, i bambini del paese ci corrono in contro per accompagnarci.
All’inizio della passeggiata sono in due. Alla fine non riusciamo nemmeno più a contarli!

Il roseto è suddiviso in blocchi regolari, perfettamente curati e irrigati da un sistema di canali che ricevono acqua dal fiume e la distribuiscono in maniera continua ed uniforme per chilometri.

Al nostro passaggio è già stato effettuato il primo taglio delle rose, quindi sulle piante rimangono i boccioli che stanno per esplodere di colore e profumo.
Tra aprile e maggio se ne raccolgono più di tremila tonnellate.

Tremila tonnellate di petali che vengono trasportati e lavorati nei laboratori di Kelaat M’Gouna, per lo più gestiti da cooperative femminili. Visitiamo uno di questi laboratori, gli essiccatoi delle rose, la cisterna di distillazione e il processo di creazione di profumi e creme.

Ovviamente non si può non comprare! Sia perché i prodotti sono a “chilometro zero” (!), sia perché l’imprenditorialità (soprattutto) femminile da queste parti va decisamente aiutata. Visto peraltro che se lo meritano!

Ancora qualche curva, ancora saliscendi tra le montagne rosse. Ancora qualche scorcio di una bellezza travolgente. Sono sempre kasbah, sempre palmeti e sempre deserto…ma ogni angolo, ogni panorama e ogni intervento umano sembra avere una sua perfezione degna della migliore pennellata su una tela.

Torniamo a Kelaat M’Gouna e ci fermiamo lungo la strada in uno dei tantissimi localini. Tavolini e sedie di plastica, una bibita fresca e un tajine preparato lungo la strada. Il nostro indimenticabile pranzo di Pasqua…

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