La prima volta che arrivai a Catania era il 3 di febbraio e ancora non immaginavo quello che sarebbe successo di lì a qualche ora…
Dal 3 al 5 febbraio si celebra una delle feste religiose più importanti, sentite e partecipate di Sicilia, se non dell’Italia intera: la festa di Sant’Agata.
Il martirio della Santa risale al 252 e fonti storiche narrano che fin dall’anno seguente i cittadini iniziarono a venerare la vergine votata al martirio a difesa della sua fede. I primi festeggiamenti di cui si ha notizia sono invece quelli del 1126, anno del rientro delle spoglie della Santa da Costantinopoli.

Gli amici catanesi dopo aver riso all’idea che avrei potuto passeggiare per il centro, totalmente ignaro, mi invitarono ad unirmi alle processioni spontanee, ai cortei dietro alla “vara”, la teca che contiene il busto argenteo della Santa, oppure semplicemente ad aspettarne il passaggio, tra la folla. La curiosità, ovviamente, mi spinge verso la festa al calar del sole.

Immediatamente vengo trascinato, quasi fisicamente assorbito dalla folla compatta in via Etnea. Dopo pochi metri ad andatura lentissima, si sentono delle grida in lontananza e si apre un varco tra le persone. Uno dei tanti devoti arriva correndo e portando sulle spalle un cero votivo. Mi spiegano che molti fedeli, per voto, percorrono tutto il tragitto della processione portando sulle spalle un enorme cero, alcuni addirittura del peso pari a quello del corpo del devoto. Ogni cero, acceso e gocciolante, rende la strada particolarmente sdrucciolevole…

La processione dura giorno e notte, per tre giorni. In alcune zone del centro, che rappresentano il cuore delle celebrazioni, si raggiungono momenti davvero intensi. La salita di Via di Sangiuliano, il canto delle monache a via Crociferi, il passaggio della “vara” lungo Via Plebiscito. La devozione dei “cittatini” con le tuniche bianche, le grida di acclamazione, le lacrime e lo stato quasi di trance di alcuni devoti rendono il passaggio della processione un momento magnetico, quasi ipnotico.

In fondo a Via Etnea attraverso gli archi della Pescheria e, dopo pochi metri, risalgo lungo Via Plebiscito. Mi faccio pazientemente largo tra la folla assiepata ovunque, tra i barbecue più o meno improvvisati che grigliano carne di cavallo, tra i venditori di candele e cere, tra i banchetti di caramelle e dolci per bambini.
Già, perché tutti partecipano alla festa: adulti, anziani e bambini. A qualsiasi ora del giorno e della notte.

L’aria si fa pesante, densa. Il calore della folla, il fumo delle griglie, la cera che cola lungo la strada , le grida dei devoti “cittatini, tutti devoti tutti!”. Arrivano i primi camici bianchi, le grida si ripetono, si moltiplicano, si sovrappongono, finché arriva il fercolo trascinato dai devoti aggrappati alle lunghe corde bianche. Sopra, i sacerdoti raccolgono i ceri e le candele offerte, fanno salire i bambini a baciare la teca, mentre il pesante baldacchino avanza lentamente tra la folla che allunga le mani per una carezza al vetro.
Momenti intensi: devozione estrema? Isteria collettiva? Folclore?

Forse un po’ di tutto questo, ma quel che è certo è che la tradizione della festa di Sant’Agata è parte della vita stessa dei catanesi. Quasi un elemento vitale.
La dimensione del rispetto totale per questa tradizione e i suoi riti ci viene data dal momento più alto e toccante: il canto delle monache del Monastero delle Benedettine di Via Crociferi.

In quel punto il fercolo con la Santa si ferma. La stretta via tra le Chiese e i palazzi barocchi fatica a contenere la migliaia e migliaia di persone stipate, nonostante la tarda ora notturna. Talvolta la processione arriva al Monastero all’alba.
Tutti si zittiscono in un silenzio surreale. Il silenzio assoluto dell’attesa.
Poi il canto. Sottile, delicato. Quasi fragile nel suo misticismo.

Tutt’altra atmosfera al passaggio della “vara” sulla salita di Via di Sangiuliano. La strada è la più ripida salita del centro cittadino e i giorni di festa la rendono scivolosa per la cera colata dai passaggi dei devoti.
La processione non si deve fermare. Sarebbe cattivo presagio. E allora le grida di incitamento della folla accompagnano il lungo, lunghissimo serpente bianco dei devoti che tirano le corde. Compatti, appiccicati, ognuno con la mano sulla spalla di chi lo precede per non perdere il contatto e il senso della posizione

Le teste chine, a tirare, tra le grida sempre più forti della folla.
Ogni tanto qualcuno scivola. Qualcuno cade. Gli altri lo sollevano di peso, trascinandolo fino a rimetterlo in piedi. La processione non si deve fermare. Sarebbe cattivo presagio.
In qualche occasione purtroppo la salita si è rivelata tragica.
Quando la Santa passa tutti la salutano, chi con la mano, chi sventolando fazzoletti bianchi.
Quasi un sospiro di sollievo. E’ passata, senza fermarsi.
Nessun cattivo presagio.

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