Nella Sarajevo assediata, la speranza era lunga 700 metri.
La città era circondata quasi completamente. Su tre lati l’esercito serbo lanciava granate dalle montagne; la pista da bob delle Olimpiadi era diventata un riparo per i militari, mentre i cecchini davano libero sfogo alla loro infamia lassù, dove nemmeno si riuscivano a vedere.
700 metri.

Il quarto lato di quell’ideale rettangolo era chiuso dalla pista dell’aeroporto di Sarajevo. Una pista dove ormai atterravano solo gli aerei delle Nazioni Unite e qualche volo zeppo di aiuti umanitari.

Oltre la pista si trovava la Repubblica libera di Bosnia, di cui Sarajevo era Capitale nonché avamposto proteso in territorio serbo. O, perlomeno, rivendicato dai serbi.

“Benvenuti in una città senza acqua, una città senza energia, una città senza cibo, una città senza medicine. Benvenuti nella Sarajevo degli anni 90”.
Così Jasminko Halilovic, bambino durante il più lungo assedio della storia dell’uomo, descrive la sua città. Lui è il fondatore del War Childhood Museum, uno degli spazi espositivi più toccanti al Mondo.

Sarajevo era in ginocchio e i suoi abitanti erano allo stremo. La linea di difesa della città, attorno alla pista dell’aeroporto, era sempre più stretta.

Nedzan Brankovic, un ingegnere diventato poi primo ministro di Bosnia, ebbe un’idea tanto rischiosa quanto efficace: costruire un tunnel sotto la pista dell’aeroporto.
Un tunnel della Speranza.

Il tunnel avrebbe avuto l’uscita nei campi del territorio libero, oltre la linea d’assedio.
Il problema però era l’entrata.

Serviva una casa vicina alla pista dell’aeroporto; bisognava non dare troppo nell’occhio durante i lavori di scavo; si dovevano evitare le granate dei serbi; serviva un posto dove scaricare il materiale…
Impresa titanica.

Una casa c’era: era quella della famiglia Kolar, proprio a pochi metri dalla pista.
Il rischio per tutti era altissimo, ma l’alternativa era cadere in mano nemica.

I lavori iniziarono l’1 marzo 1993. L’esercito bosniaco presidiava l’ingresso e si iniziò a scavare.
Servivano persone che scavassero. Più persone possibili.
Persone fidate: utili alla causa, ma soprattutto fidate. Le granate cadevano ovunque e non risparmiavano nemmeno i bambini. Figuriamoci una casa che avrebbe rappresentato una via di fuga, ma soprattutto di approvvigionamento per Sarajevo.

I volontari arrivarono.
I loro volti, oggi, sono tutti su un grande pannello nel cortile della casa, diventata Museo Nazionale.

Ormai però in città non si trovava più nulla e recuperare l’attrezzatura era praticamente impossibile. E allora si scavava con ogni mezzo possibile: pale, picconi, cucchiai, mani…
Già: con le mani.

700 metri di tunnel fanno 1200 metri cubi di detriti. Con le mani; con i cucchiai.
Il Tunnel della Speranza venne terminato il 30 giugno 1993 ed immediatamente utilizzato.

Era un cunicolo stretto e fangoso, alto poco più di un metro e mezzo e largo 80 centimetri; sufficiente per far entrare a Sarajevo cibo, medicinali, acqua, ma anche benzina, sigarette, giocattoli e armi.
Qualcuno portava anche degli animali: capre per il latte e galline per le uova.

Inizialmente il materiale veniva trasportato a spalle, poco per volta, poi il tunnel venne rinforzato ed illuminato. Vennero costruite piccole rotaie con dei carrelli per trasportare con più facilità e venne installato anche un piccolo oleodotto e dei cavi per le telecomunicazioni.

Sarajevo era di nuovo collegata con il resto del Mondo e i suoi abitanti potevano di nuovo tornare a sperare.

Tunel Spasa”, lo definirono: “Il Tunnel della Speranza”.

A pieno regime quello stretto cunicolo vide passare ogni giorno circa 3 mila persone in entrambi i sensi e varie tonnellate di merce.

Da lì passò la sopravvivenza di Sarajevo.

Alla fine della guerra il tunnel fu abbandonato e senza manutenzione, soggetto a pesanti infiltrazioni d’acqua, crollo quasi completamente.

La famiglia Kolar però, proprietaria della casa e del terreno, decise di farne un Museo, oggi uno dei più visitati di Bosnia.

La casa è rimasta nelle stesse condizioni in cui si trovava durante la guerra, compresi i fori dei mortai e delle granate che la colpirono. All’interno sono esposti diversi oggetti: armi, divise, involucri di mine e granate e molte foto scattate durante la costruzione e l’utilizzo del tunnel.
Nel garage della casa si trova l’ingresso del tunnel. Con le rotaie, i cavi elettrici, la luce fioca e i rinforzi in legno.

Se ne possono percorrere circa 20 metri: abbastanza per intuire.
Mai abbastanza per capire…

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