“Non credo che Roberto Baggio sappia che il suo rigore sbagliato ha provocato le lacrime di almeno un piccolo bambino nella Sarajevo sotto assedio”.
Era il 1994 e mentre a Los Angeles l’Italia perdeva la finale mondiale contro il Brasile, l’esercito serbo non dava tregua alla Capitale della Bosnia Erzegovina.
Jasminko Halilovic era un bambino di 6 anni e quell’Italia Brasile è la prima partita di calcio in tv, di cui abbia memoria.
Oggi Jasminko è l’ideatore e realizzatore di uno dei progetti artistici più delicati, intensi e toccanti di Sarajevo: il War Childhood Museum. Il Museo dell’Infanzia in guerra.
“Welcome to a city without water, a city without power, a city without food, a city without medicine. Welcome to Sarajevo in the 1990s”.
Questo è l’inizio della descrizione della città da sempre più aperta, accogliente e multiculturale dei Balcani. Forse d’Europa.
Sarajevo è una città dalla bellezza struggente.
È una bellezza artistica, storica, culturale.
“Benvenuti in una città senza acqua, senza energia, senza cibo, senza medicine. Benvenuti a Sarajevo negli anni 90”
Questa è la descrizione che ne fa Jasminko, perché a Sarajevo non si può non parlare dell’assedio. Di quei 1425 giorni che ne fanno il più lungo assedio della storia moderna. Non si può ignorare, perché le sue cicatrici sono ovunque.
Ma pur essendo questa la premessa, al War Childhood Museum non si parla di guerra o di morte.
O, perlomeno, non è questo che si vuole mostrare.
Si parla di storie. Di quotidianità.
Si, certo: una quotidianità segnata dalle granate, da “panni lavati nel fiume, campi di calcio trasformati in cimiteri, classi scolastiche trasferite negli scantinati”, ma comunque vissuta con speranza e positività. Almeno dai bambini.
Come Filip, nato nel 1981, che collezionava le scatole degli aiuti umanitari, come ricordo di sapori fino a quel momento sconosciuti. Per ricordo di una situazione inusuale.
Una situazione che, tanto…”dai, lunedì tornerà tutto alla normalità”. Ma i lunedì di Filip continuavano a passare e la collezione di lattine, scatole, cartine e pacchetti continuava ad aumentare, tanto da essere inserita, alla fine della guerra, nel Guinness dei Primati.
Un Museo di storie. O meglio: di oggetti che raccontano una storia.
Oggetti di chi era bambino durante l’assedio e che hanno un significato speciale.
Come la Barbie di Sumeja, bambina nata nel 1990.
La mamma aveva solo un paio di scarpe estive eleganti. Con quelle aveva camminato sulla neve, nell’inverno di guerra a Sarajevo. Un giorno decide di portare Sumeja dalla nonna, attraversando il tunnel che passava sotto l’aeroporto. Proprio all’ingresso del tunnel un soldato nota le scarpe estive della mamma e le regala un paio di preziosissimi stivali impermeabili.
Ma ecco che appare la Barbie, in mano ad uno sconosciuto. Sumeja la vede e scoppia a piangere. Non ci sono giocattoli, in guerra e Sumeja vuole tanto quella Barbie. Così tanto che la mamma scambia i suoi nuovi stivali con la Barbie…
E poi c’è la lavagna sulla quale alcuni bambini imparavano a leggere e scrivere nascosti in casa. Una granata l’ha colpita e scheggiata, ma ciononostante la lavagna non ha mai perso la sua funzione.
“There are some things in us that just cannot be put in words”. Leijla, 1977.
E allora un pupazzetto di peluche, un diario, un fumetto, un paio di scarpette da ballerina… rendono l’idea molto più di tante parole.
Il War Childhood è un progetto artistico che nasce nel 2017 come libro, poi però l’evoluzione dell’idea ha dato vita agli spazi espositivi.
Un Museo di storie. Questo è il War Childhood Museum.
Sono stati raccolti centinaia di oggetti-storie appartenuti ai bambini. Ne vengono esposti una sessantina alla volta, alternandoli. Perché le storie sono tante, cambiano, si muovono e arrivano dritte al loro obiettivo.
“We put on a show in the hallway, sang wartime hits, and our parents applauded. We were so strong!” Adis, 1983.
Un corridoio e due stanze. Questo è il piccolo spazio espositivo. Un corridoio e due stanze di un’intensità travolgente.
E alla fine del percorso ci sono anche sei oggetti, sei storie di bambini in Siria.
Perché anche se il Mondo sembra non accorgersene, di guerra ce n’è ancora…
E poi l’ultima stanza prima di uscire.
Si chiama “L’inizio”.
Un’altalena bianca, illuminata da un piccolo faro nella stanza completamente buia.
“Spingendo questa altalena le hai dato energia cinetica, diventata poi energia potenziale quando l’altalena ha raggiunto il punto più alto. La somma di queste energie è costante. In teoria, in assenza di una forza esterna, l’altalena rimarrà in moto all’infinito.
Adesso stai uscendo dal Museo dell’Infanzia di guerra, ma l’altalena continua a dondolare, così come la Vita continua dopo l’infanzia in guerra – perché la Vita dura più di noi e delle nostre esperienze.”
2 Comments
Quel periodo me lo ricordo, ero terrorizzata. Una guerra così vicina mi sembrava inconcepibile. Eppure è accaduto e riaccade anche oggi. È che musei così li dovrebbero rendere obbligatori per legge come la scuola e il bollo dell’auto. Forse terremmo a mente che cosa significa guerra. Grazie per l’articolo.
Grazie a te, Benedetta!
Si, sono Musei che lasciano il segno. Forse per capire il senso della guerra (e quindi capire che sono sempre sbagliate) è proprio quello di conoscere le storie. Le storie di persone che potrebbero essere i nostri vicini di casa, i nostri amici, i nostri bambini. Allora probabilmente apriremmo tutti gli occhi…