Ancora pochi visitatori che affrontano un viaggio in India si avventurano a scoprire cosa vedere a Orchha. Il nome significa “luogo nascosto” e mai come in questo caso il nome è particolarmente appropriato, visto che la cittadina medievale, oltre ad essere immersa in una foresta, è ancora fuori dai più frequentati circuiti turistici.
Questo fa di Orchha un posto dove si incontra l’India più autentica, più placida e rilassata delle grandi città e meno frenetica dei tour mordi e fuggi. E’ l’India dei mercati poveri, dove in mostra sui precari banchetti non ci sono merci per i turisti, ma i colori vegetali per le tinture delle stoffe, la frutta secca, i fiori per le offerte al tempio. Sono frammenti coloratissimi, privilegio per gli occhi di pochissimi stranieri.
Arriviamo di sera, il tempo di sistemare i bagagli nella stanza di un nuovissimo hotel, prima di godere di altro raro privilegio: assistere ad una cerimonia nel grande tempio cittadino, accompagnati da un amico indiano.
Dal tetto dell’edificio scendono lunghi fili luminosi gialli, rossi e verdi. Al cancello d’ingresso si ammassano le persone; molte sono già all’interno, davanti ad una specie di altare addobbato con fiori arancioni, festoni colorati e incenso che brucia.
I due fari che illuminano l’ingresso sono circondati da migliaia di insetti in volo. La foresta è lontana poche decine di metri. Nei templi si entra scalzi e il pavimento brulica di altrettanti ospiti a noi poco graditi.
Nessuno ci fa caso, nessuno fa caso nemmeno a noi. Entriamo e ci sistemiamo sedendoci (per terra!) pronti ad assistere alla cerimonia. L’amico indiano ci racconta la celebrazione, i riti, la simbologia, ma le musiche, i colori e la fila ordinata di persone che passano davanti all’altare ci distraggono.
Capiamo poco di quello che sta succedendo; scorgiamo da lontano una statua, oggetto della venerazione delle persone in fila. Evitiamo di avvicinarci, per non togliere spazio a chi è in preghiera.
Poi la statua viene improvvisamente tolta e nascosta alla vista dei fedeli, apparentemente senza una ragione, per lo meno a noi comprensibile. E così la cerimonia finisce.
E’ uno di quei momenti in cui non capisci cosa sta succedendo e la tua partecipazione è totalmente passiva, ma sai anche che si tratta di un momento che non devi perdere. E’ come quando ascolti una musica, una canzone di cui non capisci le parole, ma che ti piace, ti coinvolge, ti rapisce.
E’ mattino presto quando lasciamo la nostra stanza. Orchha è poco più di un paese e non fatichiamo ad adeguarci ai ritmi rilassati; ci lasciamo volentieri trasportare dalla nostra curiosità verso la piazza della cittadina, uno slargo cementato con al centro un grosso albero.
Intorno i soliti banchetti di legno traballanti vendono pane, dolci, uova e farina mentre al centro della piazza, seduti su teli, i mendicanti con le ciotole di metallo chiacchierano animatamente aspettando qualche offerta.
In India domina sempre il colore. Arancione, per lo più, ma anche giallo, rosso, azzurro. Tinte forti e vivaci, apparentemente in contrasto con la decadenza dei templi, le condizioni economiche della popolazione, il caos delle strade e, probabilmente, della stessa società moderna.
Entriamo nella grande area verde che ospita il complesso dei templi e dei Mahal dai nomi avvolgenti: Raj, Jahangir, Rai Praveen…
Orchha, in età medievale, era una grande città; i palazzi e le aree per le celebrazioni religiose erano ampie ed importanti. Molti templi, molti edifici ancora non sono stati strappati alla foresta; molti, invece, sono stati di nuovo fagocitati dagli alberi e le sterpaglie.
Dei fasti passati oggi rimane ben poco, se non gli edifici abbandonati a sé stessi, ed in perpetua lotta contro vegetazione, umidità, scimmie, topi e pipistrelli. Di questi ultimi, soprattutto, abbiamo imparato a riconoscere anche l’odore. Entrare in uno dei templi di Orchha significa tornare indietro nel tempo di qualche centinaio d’anni, oltre che dividere lo spazio con gli ospiti a due o quattro zampe.
Ci inoltriamo nel Raj Mahal, il palazzo principale del complesso, seguendo le forme sinuose e ammalianti delle finestre, delle porte, delle cupole. E’ tutto vuoto e decadente, ma di un degrado che comunque ha parecchio fascino. Su una delle cupole riposa un avvoltoio, rapace che è solito svolazzare sulle carcasse. Metafora perfetta.
In alcune stanze gli affreschi stanno ancora vincendo la lotta contro il tempo e i colori vivaci raccontano scene di corte e le storie dei testi sacri all’induismo.
Saliamo su una ripida scalinata; dalla cima vediamo il fiume in lontananza e intuiamo la mappa del sito archeologico stupendoci nuovamente per la sua estensione. Per un attimo ci sembra di essere, a nostra volta, dentro una rappresentazione: la lotta dell’uomo, la sfida delle sue costruzioni contro la natura. Inutile prodursi in troppi sforzi: il vincitore è scontato; è sempre solo questione di tempo.